30 Dicembre 2012 – da Alessandro Ristaino, discussione lanciata nel nostro Gruppo RETI DI IMPRESE PMI.
Questo articolo è tratto dalla sezione economia della Stampa a firma di Marco Alfieri, trovo sia una stupenda e sintetica analisi della situazione economica italiana, eccone alcuni brani:
Bulgari, Parmalat, Fonsai, Edison, le mire cinesi sul lusso e la tecnologia tricolore, le ambizioni tedesche sui trasporti. Perché la nostra industria è cosi vulnerabile allo shopping straniero? E’ un misto di nanismo, politica assente, scarsa competitivita e incapacità di fare sistema, aggravato da una crisi che ha prodotto un paesaggio economico differenziato. «Da un lato – spiega l’economista industriale Patrizio Bianchi – c’è una testa formata dai 5mila campioni transnazionali che crescono a ritmi da paesi Bric e valgono un milione di addetti; dall’altro il corpaccione in difficoltà piegato sul mercato domestico. Il punto è che la nicchia internazionalizzata non riesce a sollevare tutto il sistema». Anzi, questo dualismo, «che ha disarticolato le filiere industriali, espone le nostre multinazionali tascabili-alle mire straniere».
Nel frattempo il paese è fermo da 10 anni e ha smarrito 6 punti di produttività. «Dal 1970 al 2008 abbiamo perso 3 punti strutturali di crescita, passando dal 4 all’I per cento. Se la crisi mondiale comincia nel 2008, la stagnazione italiana è precedente», ragiona l’economista Beppe Russo. Da solo l’export non basta. I Piccoli con rapporti sono 200mila su 4,5 milioni, e i nuovi mercati chiedono presidi stabili. Molte volte, per difendere «la roba», i nostri imprenditori preferiscono restare pulci invisibili al fisco.
«Il nanismo cronico – spiega Salvatore Rossi, capo del servizio studi di Bankitalia – ritarda un’adozione convinta e diffusa delle nuove tecnologie e delle loro implicazioni organizzative». Indebolendo il sistema esponendolo alle mire straniere. Poi c’è la scarsa patrimonializzazione. Dalle crisi Olivetti e Montedison questa è stata una costante: imprese che competono sui prodotti finanziariamente gracili. Non è il caso di Parmalat, ma le aziende italiane sotto i 10 milioni di fatturato, dispongono di una capitalizzazione inferiore del 30% rispetto ai competitor. Famiglie ricche e imprese povere, difficile competere così.
Negli anni 90′ in Italia ci fu una finestra per irrobustire il sistema industriale uscito negli anni precedenti da settori strategici come l’informatica, la chimica, la farmaceutica e l’elettronica di consumo. Tra il 1990 e il 2006 l’Italia con 137,9 miliardi incamerati e 139 società che passano di mano, è il paese europeo che dismette più patrimonio pubblico. Ma dalle spoglie dello stato imprenditore usci fuori una sorta di neo monopolio privato, «costruito su scatole societarie più orientate al controllo che alla crescita e allo sviluppo internazionale», prosegue Bianchi. Le privatizzazioni all’italiana diventano il valzer dei soliti noti.
Basta guardare cos’è il listino di Piazza Affari oggi. Il 40% delle aziende quotate mantiene un’azionista di riferimento pubblico, ma «se sommiamo le società cedute dallo Stato ai privati (Autostrade, Sme, Telecom e le genco Enel), il 69% delle nostre grandi aziende quotate è pubblica o nata dalla mano pubblica», calcola Alessandro Penati. Dove sono i capitalisti privati? Più nei servizi regolati che nel mercato aperto, inverando la profezia di Enrico Cuccia. E dov’erano quando c’era da «terziarizzare» il made in Italy? Siamo i mobilieri più bravi ma la distribuzione la fa Ikea. L’Italia resta un paese di creativi incapace di industrializzare procedure complesse. Senza muscoli e senza politica industriale per giocare le guerre di mercato.
La migliore risposta a tutto questo è:
FARE RETE ED INTERNAZIONALIZZARE
Alessandro Ristaino
Partecipa alla discussione nel gruppo di LinkedIn RETI DI IMPRESE PMI
Entra in ASSORETIPMI! partecipa anche tu alla crescita di questo progetto che si sta affermando ogni giorno di più in Italia e a all’estero. Per aderire VAI QUI